Nel prossimo futuro il mercato delle moto sarà in mano cinese e, in generale, dell’estremo Oriente, tanto che nel medio periodo potrebbe decretare la fine di alcuni marchi noti per come li intendiamo oggi. Alcune idee su come le case occidentali e quelle giapponesi possono tutelare storicità e – parzialmente – posizioni leader di mercato
Titolo e sommario di questo testo già riassumono il contenuto di queste righe. Sono però costretto ad una premessa, anzi, due: questo non sarà uno scritto breve (tutt’altro) perché vorrei fornire uno spunto su di un argomento che meriterebbe una trattazione ben più ampia; inoltre, mi preme dirlo, queste righe non vogliono essere in alcun modo una accusa di “aggressione commerciale” (cit. Donald Trump) alle aziende cinesi, bensì il suggerimento di alcuni concetti a mio avviso fondamentali per l’industria occidentale e quella giapponese in funzione di un sano principio di concorrenza sul mercato 2 ruote del prossimo futuro.
Innanzitutto, un breve cenno storico: Deng Xiaoping, ex-leader della Repubblica Popolare Cinese, dichiarò a più riprese durante la sua presidenza (1978 – 1992) di voler fare della Cina la “fabbrica del Mondo”, lavorando duramente per creare le infrastrutture industriali capaci di attirare nel Paese i capitali mondiali. E così avvenne praticamente in ogni settore, seppure al prezzo di stipendi tra i più bassi di quelli dei paesi industrializzati e, in generale, scarsi diritti per i lavoratori (eufemismo?). Fu proprio la manodopera a basso costo e le conseguenti opportunità che ne derivavano per i paesi che spostarono lì la loro produzione a spingere l’Occidente a far entrare la Cina del WTO (World Trade Organization, ovvero l’organizzazione mondiale delle relazioni commerciali tra i paesi) immaginando di poter profittare al meglio fintanto che la festa fosse durata. L’idea generale era quella che, una volta integratisi nel sistema di commercio mondiale, i cinesi avrebbero chiesto maggiori diritti e più tutele per i lavoratori, fino ad arrivare ad una sostanziale parità con le loro economie rendendo di fatto la Cina un semplice paese concorrente, se non sostanzialmente innocuo, dal punto di vista commerciale. Così non è stato, e lo stiamo vivendo nel quotidiano: forti dei risultati economici ottenuti negli ultimi 40anni i cinesi sembrano restare ancor oggi fortemente legati al proprio sistema politico e sociale, che consente loro di crescere a ritmi vertiginosi assolutamente inimmaginabili per le grandi democrazie occidentali.
Tralasciando la storia nota degli ultimi 20anni, fatti per lo più da delocalizzazioni produttive e partnership commerciali che hanno di fatto esportato tecnologie e conoscenze verso l’estremo oriente attraverso la Via della Seta, arrivando ai giorni del mondo globalizzato le aziende occidentali si trovano a doversi confrontare con competitor dalle capacità produttive enormi, ben più economiche sulla larga scala e per questo estremamente aggressive dal punto di vista commerciale.
Salto a piè pari ogni valutazione che implichi considerazioni politiche personali circa lo smorzamento del fattore concorrenziale tra Cina e Occidente, e vengo al dunque: all’atto pratico, come possono tutelare la loro produzione, le marginalità, i profitti, il lavoro e – in una parola – il proprio futuro le industrie occidentali delle due ruote? Parlo volutamente del solo settore moto in quanto, oltre ad essere un argomento a me particolarmente affine, a mio avviso tra quelli legati alla mobilità è certamente quello più a rischio per il prossimo futuro.
Qualità: siamo ancora leader?
A questa domanda rispondo con un banale e sempreverde “dipende”. Dipende dal segmento, principalmente: se prendiamo le piccole cilindrate, come ad esempio le 300cc oppure le 500cc, allo stato attuale la risposta è semplicemente negativa. Fate un salto in una concessionaria CF Moto, Voge (Loncin) oppure Zontes e vi accorgerete che il concetto di cinesata è oramai quanto meno fuori luogo. Per le giapponesi il discorso è analogo, e il loro maggior costo non trova sempre riscontro in contenuti o materiali di qualità superiore. Negli ultimi anni le piccole moto provenienti dall’estremo Oriente hanno fatto dei passi in avanti enormi in termini di contenuti e qualità percepita, tanto da avere poco o nulla da invidiare alle creazioni a noi più note. Se poi si considera che molte aziende europee e giapponesi realizzano (o fanno realizzare) i loro prodotti proprio in paesi considerati in via di sviluppo, viene da chiedersi perché l’utente finale debba sobbarcarsi esborsi economici sensibilmente superiori per acquistare moto di marchi noti che però poco o nulla hanno da offrire in più in termini di contenuti. Per quel che riguarda le medie e le grosse cilindrate, invece, il discorso si ribalta totalmente, perché proprio in tema di contenuti (si pensi ad esempio alla sofisticazione elettronica) al momento l’ago della bilancia pende fortemente a favore delle aziende più note, e questo vale anche per design e – in generale – innovazione. In questo senso, l’elettrico sarà una sfida tutta da giocare, ma è un altro – spinoso – argomento.
Ecco quindi un elenco non esaustivo su quelli che a mio avviso sono e saranno sempre più gli argomenti sui quali l’Europa e il Giappone delle moto sono chiamati a giocarsi la sfida del prossimo futuro, tenendo a mente che in palio c’è molto più di qualche risibile quota di mercato.
- SottoBrand, no estensioni di linea: la guerra dei prezzi contro aziende giocoforza più competitive dal punto di vista della produzione e del costo-lavoro è un gioco al massacro. Faccio un esempio concreto: Aprilia con la sua Tuareg 660 ha scelto di non scendere a compromessi in termini di qualità e raffinatezza tecnologica chiamandosi fuori dalla lotta al prezzo in cui sono coinvolti altri costruttori nel segmento delle crossover di media cilindrata. Semplicemente la Casa di Noale ha adottato la strategia più corretta, ovvero mantenere uno standard elevato per quel che riguarda i contenuti, allestire di conseguenza listini prezzo ben al di sopra a quelli delle concorrenti impegnate nel medesimo settore ritagliandosi il ruolo di benchmark tecnologico della categoria. Punto. Immagino che i vertici di Noale fossero al corrente di dover rinunciare alle vette nelle statistiche di vendita, ma l’hanno fatto scientemente, e i numeri comunque interessanti danno loro ragione. Un esempio di estensione di linea potrebbe essere quello di una Tuareg 660 priva di sospensioni di qualità o di una gestione elettronica di eccellenza, con l’obiettivo di raggranellare qualche numero in più scendendo nell’arena della lotta al prezzo basso. Funzionerebbe? No, anzi, andrebbe a cannibalizzare qualche numero della Tuareg come la conosciamo oggi e – soprattutto – a sbiadire l’immagine che la Casa sta faticosamente creando attorno a questa moto, che è appunto quella del top del segmento. In altre parole, la crossover di Noale farà meno numeri di una qualsiasi concorrente tecnicamente meno esclusiva ma li concretizzerà (immagino) con margini superiori, e soprattutto portando fieno in cascina al concetto hi-tech del Marchio. Seppure del brand Aprilia mi piacerebbe parlare in modo approfondito in un’altra occasione, dico solo che se Piaggio volesse monetizzare al meglio l’investimento fatto sulla Tuareg 660 potrebbe farlo veicolando la sua piattaforma tecnica attraverso sì una versione più basica della moto, magari con qualche differenza estetica, ma senza dubbio facendolo sotto un altro nome, come ad esempio quello Gilera, Derbi o un altro pescando nel suo paniere. Consapevole che anche il lancio (o rilancio) di un marchio abbia dei costi importanti, così facendo potrebbe sì decidere di scontrarsi sul fattore prezzo con altre case, al contempo lasciando inalterato il fattore premium di Aprilia.
In Ducati sono maestri nel marketing, e non è un caso che il sottoBrand Scrambler sia nato negli scorsi anni fino ad arrivare quasi a vivere oggi di vita propria. Oggi a Padova è presente un flagship del Marchio che si chiama Scrambler Point, e immagino che a breve nasceranno altre sedi di questo “marchio”. Non è un caso se in questo luogo si parla di Scrambler e non di Ducati, con merchandising e iniziative dedicate e tutto il resto. Rispetto alla più recente produzione Ducati, infatti, quella Scrambler ha poco a che vedere, sia tecnicamente che in termini di clientela, come testimoniato dall’impiego dei bicilindrici ad aria e pure della proposta di cubature inferiori. Al brand originale è confermato il ruolo di bandiera tecnologica mentre al nuovo sottoBrand viene affidato il compito di proporsi al pubblico più generalista, fatto di nuovi utenti, motociclisti di ritorno oppure chi della moto fa un utilizzo quotidiano in città. Se ci pensate è la stessa operazione – seppure inversa – portata avanti da Citroen con il brand DS, che senza snaturare il concetto originario di auto alla portata di tutti ha di fatto ampliato l’offerta affacciandosi al segmento premium.
Il ragionamento dedicato ai sottomarchi a mio avviso sarebbe talmente ampio da poterci dedicare un libro. Quel che però è certo rimane il fatto che nel prossimo futuro sarà impossibile riuscire a mantenere un solo marchio valido per l’intera offerta di prodotti, spaziando dalle supersportive ultratecnologiche fino agli scooter da città: il rischio (dal mio punto di vista direi “la certezza”) è quello di un marchio che via via perderà appeal, mischiandosi nel mare magnum di piccoli e grandi brand presenti nei segmenti meno tecnologicamente distintivi fino a farsi trascinare nella battaglia (impari) sui prezzi. E poco conterà allestire sedi produttive sull’Isola di Formosa, in India o chissà dove, sarà una battaglia persa in partenza. In questo senso, personalmente non vedo bene la strada intrapresa da Triumph, prossima ad ampliare la gamma con modelli di piccola cilindrata nati e sviluppati con il partner indiano Bajaj. Ovviamente le politiche di sviluppo di una Casa non si possono basare sull’andamento di un singolo mercato, pertanto immagino che le potenzialità ravvisate- ad esempio – nei paesi più popolosi cancelli di fatto ogni potenziale mal di pancia delle varie filiali dislocate nel mondo: detto questo, però, è altrettanto vero che se le case produttrici devono vendere ai loro concessionari (sell-in) questi a loro volta devono piazzare i prodotti ai clienti finali (sell-out) e qui la cosa a mio avviso rischia di ritorcersi contro alla rete vendita stessa. Spero di sbagliarmi e riconosco come sia impossibile farsi un’idea precisa senza una chiara visione globale delle strategie. Tuttavia, i numeri limitati delle “piccole” di casa BMW (anch’essi realizzati da un partner indiano, in questo TVS) non lasciano presagire nulla di buono, almeno in Italia e in altri paesi europei. In questo caso le ipotesi potrebbero essere due: prezzi e contenuti tecnici competitivi con il settore di riferimento, quindi potenziale svalorizzazione del Marchio e dei fattori di esclusività, oppure prodotti di qualità e contenuti molto elevati e quindi prezzi superiori alla media (e conseguenti numeri di vendita limitati). Quest’ultima spero sia la strada che verrà intrapresa. Nel caso specifico della Casa inglese, personalmente avrei optato per la creazione di un brand parallelo, magari affidando la proposta di questi modelli a canali di vendita differenti rispetto a quelli della gamma più esclusiva. La medesima strategia adottata da QJ Motor con Benelli e Keeway, per intendersi.
Per Ducati il discorso è simile: per la Casa bolognese conta moltissimo la brand reputation elevata (cosa che Triumph si sta invece costruendo) ma anche qui quando dai cancelli della fabbrica sono usciti alcuni modelli non in linea con la filosofia storica del Brand questi hanno fatto molta fatica sul mercato. Prendiamo ad esempio la serie Sportclassic, la prima generazione Multistrada oppure, in tempi più recenti, la gamma Diavel. Nell’ambito delle piccole cilindrate di cui si vocifera (cross e non solo) c’è da sperare che l’Azienda non scenda a patti con qualità e dotazione, proponendo modelli dall’elevato contenuto tecnologico che mantengano elevata la percezione premium del Marchio, senza rincorrere numeri di vendita elevati. Perfetto sarebbe a questo scopo l’utilizzo del sottoBrand Scrambler, oppure la creazione di uno nuovo, come ad esempio DesertX, di recente utilizzo sulla prima “vera” fuoristrada bolognese.
Seppure oggi non sia dato sapere, spero che la tecnica del sottoBrand venga applicata da MV Agusta, che si appresta a scendere nell’arena con prodotti realizzati in collaborazione con partner dell’estremo oriente. Hanno a disposizione il marchio Cagiva e spero lo utilizzino proprio per questo scopo, portando sul mercato prodotti più popolari delle MV con il duplice risultato di incrementare i numeri totali e lasciare inalterata l’immagine elitaria dei prodotti della Casa Varesina.
- Focus sul Marchio: non me ne vogliano le aziende e i concessionari legati ai marchi che cito, però oggi comprare una Benelli, una Voge, una CFMoto o chissà quale altra moto made in Cina è sostanzialmente la stessa cosa. Non mi riferisco ai contenuti tecnici o alla qualità, bensì all’aspetto esperienziale, da noi molto sentito: se compro una Ducati entro in un club esclusivo fatto di eventi, merchandising, attività legate al Brand che mi rendono a tutti gli effetti parte di un gruppo. La stessa cosa avviene (oggi, finalmente!) per Aprilia, così come per BMW e per altre Case. Investire con forza sullo sviluppo di iniziative collaterali al solo acquisto della moto farà sì che il Brand si identifichi come qualcosa di realmente differente, quasi elitario, capace di attirare clienti cosiddetti “alto-spendenti” (che non sono i ricchi!). Questi utenti di certo al prossimo acquisto non penseranno nemmeno di rivolgersi ad altri marchi meno prestigiosi, proprio perché filosoficamente distanti da loro e dalle loro abitudini. Sarà sempre maggiore questo distacco nel prossimo futuro, ed è proprio sul “contorno” di contenuti esclusivi (o instagrammabili direbbero i giovani) che i Marchi dovrebbero dirigere parte delle risorse.
- Investire sulle reti vendita Auto: scordiamoci i concessionari per come li conosciamo oggi. Le piccole strutture a gestione familiare sono destinate a svilupparsi fino a raggiungere dimensioni (sedi, personale impiegato ecc…) di maggiore rilevanza oppure soccombere, soppiantate dai grandi gruppi che fagociteranno gran parte della rete commerciale. È un processo già avvenuto nella storia recente del mondo auto, che di fatto ha cambiato nelle fondamenta il tessuto imprenditoriale legato alla distribuzione automotive. Storicamente le moto seguono il settore auto con un ritardo di 10 massimo 20 anni, ed è stato così per tutte le novità introdotte nel mondo a 4 ruote. Non contano nulla argomentazioni relative a “settori differenti” o “la moto si acquista per passione”, è la stessa cosa, e chi lo capirà per primo godrà di un vantaggio concorrenziale notevole. Qualche esempio? Grazie allo stretto legame con il mondo Volkswagen/Audi, ormai la stragrande maggioranza dei concessionari Ducati rientra sotto le insegne di gruppi auto. Sono rimasti pochi i concessionari di proprietà di un singolo imprenditore/lavoratore, considerate le esigenze sempre maggiori in termini di volumi e investimenti delle Case. Legare il business ai gruppi auto significa collaborare con strutture più modernamente organizzate, forti di maggiori capitali, con apparati vendita e post-vendita tendenzialmente più efficienti e pronti ad assecondare le molteplici esigenze in termini di procedure e gestione del cliente da parte delle fabbriche. Pensate alla gestione della presenza digitale delle concessionarie, alle iniziative online e offline, alla creazione e gestione dei lead, al post-vendita, alle azioni di upselling e via dicendo. Con l’importanza sempre maggiore di questi elementi è difficile pensare che una piccola struttura familiare possa assecondare tali esigenze rispettando gli standard richiesti dalle aziende. Anche Triumph ha capito da tempo l’importanza di legarsi al mondo auto (Triumph Treviso è sotto le insegne di un importante distributore locale automotive) e nel prossimo futuro saranno sempre di più le commistioni tra i due settori. Il vantaggio competitivo nei confronti delle aziende asiatiche che si affacciano al nostro mercato in questo caso è molto elevato, in quanto la stragrande maggioranza di questi marchi veicola oggi i propri prodotti in Europa affidandosi a strutture commerciali pluribrand che non hanno la forza per spingere con vigore sulla presenza digitale o sul fattore esperienziale dell’acquisto, lasciando di fatto campo libero a chi ha capacità e competenze per investire in questo senso. Salvo rare eccezioni, le reti vendita dei nuovi brand affacciatisi sul mercato è inoltre fatta per lo più di piccoli concessionari che decidono di investire su un brand dalle pretese oggi limitate, sperando di cavalcare l’onda di una potenziale futura esplosione. Con il massimo rispetto per queste attività, spesso parliamo di soggetti commerciali con potenziali capacità ben differenti da quelle dei grandi gruppi automotive, con tutto ciò che ne consegue in termini di investimenti. Fino a quando sarà così, però, è tutto da definire, e se un giorno un colosso cinese firmasse un accordo con un grande gruppo automotive tipo Penske o Autotorino (solo per citarne due a caso) gli equilibri verrebbero stravolti in breve tempo.
Fidelizzazione: tante sono le iniziative oggi percorribili per legare a doppio filo il cliente ad un marchio. Penso a servizi aggiuntivi quali l’estensione di garanzia, i pacchetti di manutenzione programmata, prodotti finanziari quali maxirate con patti di riacquisto, il noleggio, i leasing e molto altro. Tutti strumenti ancor oggi ben al di là del pieno utilizzo, sui quali spesso le case (o talvolta i loro responsabili commerciali) non spingono minimamente, spronando i propri concessionari a stracciare i prezzi per competere con la concorrenza. Invece di valutare questi strumenti come investimenti per il futuro prossimo dell’attività, come valori aggiunti al prodotto, vengono visti come fattori inquinanti della trattativa, quasi delle inutili perdite di tempo, dimenticandosi che riavedere il cliente in concessionaria significa potenzialmente avere maggiori opportunità per vendere prodotti, servizi, ricambi, accessori, abbigliamento, merchandising oppure, perché no, gettare le basi per il prossimo acquisto.
Queste sono le mie considerazioni, basate su diversi anni di lavoro al fianco di strutture commerciali automotive di piccole e grandi dimensioni e, soprattutto, di enorme passione per il settore. Voi come la pensate? Che idea vi siete fatti della “invasione cinese” e del futuro del mercato due ruote?